Prefazione alla mia silloge d’esordio Nel labirinto, Montedit 2001, seconda classificata nel Premio Nazionale Emma Piantanida, Legnano (MI) 2002.

L’immagine del labirinto è antica e potente. Forse tra le più antiche e potenti che l’uomo abbia prodotto. Dai miti della classicità, Dedalo in testa, e poi su su fino a noi ha percorso la storia dell’umanità senza mai svelare appieno tutta la sua potenza, tanto da restare ancora adesso viva e feconda, riccamente portatrice di senso nonostante le molteplici letture che ne sono state date. Si tratta, in realtà, di un’idea inesauribile, cui si può attingere a piene mani senza mai arrivare a svuotarla completamente, a renderla arida e infeconda. Il suo segreto è celato in se stessa: in quelle spire che si avvolgono all’infinito, in quei percorsi misteriosi che conducono in molti luoghi e in nessuno, in quella ciclicità che non tradisce ma non è fedele a nessuno perché può esserlo solo a se stessa.
Tutti siamo nel labirinto. Questa è la profonda consapevolezza che ci attira verso quest’immagine, ci affascina e inorridisce al tempo stesso. Tutti siamo nel labirinto e vaghiamo senza posa, alzando ogni tanto lo sguardo per carpire dalle rotte misteriose degli uccelli o delle stelle l’indicazione sulla direzione da seguire. Il labirinto è la vita, è l’anima dell’uomo, è il succedersi infaticabile ed estenuante dei giorni. Il labirinto è il nostro suggello, la nostra croce, la nostra unica pozione di vita e morte insieme. Il labirinto non ha senso se non lo si guarda dall’alto, ma guardarlo dall’alto è impossibile perché ci siamo dentro. È un gioco pericoloso, l’unico che ci ha dato giocare, e le regole non possiamo darle che noi. Ma solo alla fine sapremo se abbiamo giocato bene e se le regole erano valide. Per questo il labirinto è la libertà e la prigione, ossimoro di tutti gli ossimori.
Per questo richiamare l’idea del labirinto in capo a una silloge è atto di coraggio e di consapevolezza: significa richiamare immediatamente l’attenzione sulla profonda serietà del fare poesia. Non si aspetti il lettore versi ameni, svagati, consolatori. No, l’autore ha in mente qualcosa di ben diverso. Una poesia scabra e lucida, intensamente proiettata verso il dentro, centripeta rispetto a ciò che fonda l’animo umano e lo fa intensamente soffrire e talvolta gioire. L’evento contingente viene solo sfiorato, è il dato di partenza per una riflessione che si svolge su categorie universali ed eterne: la caducità delle cose, il tempo che finisce, la memoria, la ricerca di un senso. Senso che viene trovato, forse, solo alla fine della silloge, nella lirica che significativamente dà il titolo alla raccolta: “se un giorno tu, fratello, / allungherai la mano / verso la mia…” Ecco, forse, un possibile significato: in quell’allungare la mano c’è tutta l’attesa, tutto il desiderio, tutta la convinzione che solo così è possibile vincere l’assurda geometria del labirinto, del “vile intreccio ebbro”. Non si tratta, si badi, di un’acquisizione facile e scontata, di un sommario “volemese ben” buttato lì perché non fa mai male. La dice lunga la stessa sistemazione della lirica: al termine della raccolta, quindi al termine di un percorso, ultimo approdo di un viaggio lungo e accidentato partito, non a caso, con la dolente visione delle foglie d’autunno che dopo un ultimo vorticoso giro di danza “ripiombano nell’eterno silenzio / calpestate e dimenticate da tutti”. E poi ancora notti silenziose appena attraversate dai bagliori dell’attimo, promesse di felicità tradite dal tempo e dagli uomini, volti ormai sbiaditi che rammentano parole corse via col vento… E in tutto questo dolente sapere e ricordare ecco, d’un tratto, l’esplosione della primavera e con essa il risorgere della vita e della speranza. In fondo, è impossibile non sentire il richiamo di una natura che è e sempre sarà, a dispetto di un uomo che dimentica ciò che è; e proprio per non dimenticare ecco subito dopo il richiamo alla terra e alle radici, allo scavo interiore come unica possibilità di sentirsi vivi; e ancora l’immagine del bimbo, nuovo e antico per sempre, che canta le “meraviglie del mondo”, riempie di luce un orizzonte fino a quel momento buio. Vivere è terribilmente complicato, certo, ma alla fine anche semplice, e le cose che contano davvero non sono più di due o tre. La corsa di un bimbo sulla spiaggia, allungare la mano verso l’altro non per vincere il “vile intreccio ebbro” ma per sentirsi meno soli e non perdere la capacità di sognare. Poco altro ci è dato: e Galvagni ce lo ricorda con versi semplici fatti di parole precise, scelte e trovate con cura, e affidate alla mente al cuore di un lettore che non potrà non portarle con sé, dentro e fuori il labirinto.

Olivia Trioschi

Pubblicato da Marco Galvagni

Poeta, saggista e critico letterario.

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